Siamo già oltre il dibattito che si è consumato negli ultimi giorni dopo la pubblicazione del video che “documentava” la decapitazione del giornalista americano James Foley su Youtube.
In realtà Youtube l’ha rimosso due ore dopo. Ma è stato inutile perché molti utenti hanno condiviso in rete le immagini anche su altri social network come Twitter.
Perché siamo oltre? Semplicemente perché il video esaminato dagli esperti fa comprendere come ci sia stata una buona post produzione per rendere ancora tutto più cruento. Questo assodato che il giornalista americano è stato ucciso e comunque barbaramente, dopo mesi di prigionia.
Il video o le immagini della decapitazione hanno fatto il giro del mondo e questo può essere servito a due scopi diversi ma entrambi discutibili. Da una parte la voglia dei carnefici di dimostrare la loro potenza e violenza al mondo. Dall’altra il potere di quelli che vengono definiti i colossi del web capaci di alimentare un potere di condivisione che rischia di mortificare le identità dei singoli utenti.
E se è vero che Youtube prima e Twitter dopo hanno deciso di cancellare il video e i video sulla decapitazione da parte dell’Isis, è anche vero che in molti, soprattutto tra i giornalisti hanno contestato questa scelta.
E tra i più convinti assertori della pubblicazione c’è proprio Nicolas Henin, compagno di prigionia di James Foley, tra il 2013 ed il 2014, che ha anche pronunciato una frase ad effetto:”Non è distruggendo il termometro che si abbassa la febbre”. Ed ha poi rincarato la dose: “Sono un giornalista. Ho raccontato gli sgozzamenti pubblici di Al Zawahiri e non sono favorevole alla censura”.
Il potere delle nuove tecnologie è indiscutibile. Negli ultimi anni le guerre sono state narrate da blogger. Le immagini registrate con smartphone o tablet sono diventate quelle che poi attraverso i social network hanno fatto il giro del mondo e sono state riprese dai giornali.
Il senso dell’attualità sembra essere dato dall’immediatezza con cui le immagini giungono da un capo all’altro del mondo. E il presupposto è che non c’è mediazione giornalistica.
Anche la morte di Gheddafi, per citare un esempio recente, è stata immortalata con lo smartphone del suo giovane assassino. E la foto che ha invaso le redazioni è quella di un grande fotoreporter che ha voluto diffondere una istantanea dello smartphone con dentro l’immagine del dittatore ucciso e ben impressa l’ora e il minuto.
Questo per dire che la spontaneità si alterna con la costruzione di momenti di pura propaganda.
Anche nel caso della decapitazione di Foley, se è vero che tutto è stato preparato a tavolino, è bene pensare che tutto è avvenuto per far comprendere al mondo che l’Isis fa sul serio. Le immagini possono servire, soprattutto se violente, a fare proseliti, a mortificare anche i potenti sistemi di intelligence che non riescono ad intercettare le loro mosse.
Se a questo aggiungiamo chi ha interesse a diffondere le immagini per guadagnare sugli introiti pubblicitari, diventa una partita quasi senza controllo.
Quindi mentre noi siamo a discutere se è giusta o meno la diffusione, ed anche chi è a capo dei social network, per ragioni di mercato o forse di buon senso decide di eliminare i video, il web percorre strade che sembrano impossibili da battere.
Chi ha fatto girare il video con la decapitazione può sfuggire o meno ai controlli, può far parte del sistema capitalistico o propagandistico, ma troverà il modo di condividere e di alimentare un gioco perverso. Rimane allora l’uso consapevole come unica strada.
Ed in effetti come sosteneva Albert Einstein: “la tragedia della vita è ciò che muore dentro ogni uomo col passare dei giorni”. Forse dentro di noi stanno morendo i valori. E il web non c’entra.
Pubblicato dal settimanale cattolico Verona Fedele nell’edizione del 31 agosto