Tra pochi giorni ritornerò nella sua Scuola internazionale nel cuore dell’Umbria ad Avigliano. Lì ha creato un Centro (CET) per aiutare i giovani artisti. Il suo nome è Giulio Rapetti, in arte Mogol. Un uomo straordinario, che ha superato gli ottanta anni, ma è pieno di progetti e di energia. L’occasione anche nel novembre 2017, come era già accaduto nel 2016, è una mia docenza al Seminario di Lingua e Cultura Italiana rivolto agli insegnanti e ai professori delle scuole elementari e medie superiori italiane della Slovenia e della Croazia organizzato dall'Università Popolare di Trieste in collaborazione con il Consolato Generale d'Italia a Capodistria.
In realtà lo avevo già conosciuto un bel po’ di anni fa quando lavoravo a Video Music. Con l’editore, Mariolina Marcucci, l’avevamo incontrato per parlare di progetti comuni. Già allora avevo compreso quanto era straordinario questo uomo, con degli occhi bellissimi, capaci di trasmetterti il suo amore per la vita. A lui basta un foglio di carta ed una penna per buttare giù in pochissimo tempo i testi di una canzone. Nel libro in cui si racconta, edito da Rizzoli “Il mio mestiere è vivere la vita” si racconta e lo raccontano nella prefazione Clemente J. Mimun, Direttore del Tg5 Mediaset storico giornalista, e il produttore americano Tony Renis passato alla storia per l’intramontabile brano “Quando, quando, quando”.
“Mogol è un uomo straordinario – scrive Mimun -molto al di là della sua stranota capacità di tradurrei sentimenti in testi che sono stati, sono e saranno la colonna sonora della vita di tutti noi. Certo ci si avvicina a Giulio, si diventa suoi fan, lo si vive come un gigante, soprattutto per le emozioni che ci ha donato con Lucio Battisti, Celentano, Mina, Mango, Cocciante, Zero”.
E Tony Renis racconta le sue doti umane oltre che professionali: “Ammiravo la persona, generosa, leale, disponibile, così come si sarebbe dimostrato anche nel seguito della sua vita, in ogni occasione in cui ci siamo trovati affianco, sempre pronto a spendersi per te senza chiedere in cambio nulla. Più di un amico, Giulio, un fratello”.
Basta questo per comprendere che incontrarlo, sentirlo parlare della storia della musica recente italiana, ascoltare già episodi bellissimi della sua vita è una lezione che rimane impressa per sempre. Basta guardarlo per ripensare ai testi delle sue canzoni. O basta guardarlo all’opera con giovani cantanti che nella sua scuola vanno a formarsi per cercare la via del successo.
Sentirlo parlare di amore, sentimenti e passioni è un arricchimento infinito: “se le passioni mi hanno sconvolto, gli affetti hanno invece messo le radici dentro di me. Amarsi un po’ è il mio sguardo sull’amore, e anche se l’ho scritta anni fa oggi la riscriverei uguale, perché il mio punto di vista non è cambiato: l’amore vero è quello che dura una vita, è quello quieto, è il soccorso reciproco”.
Mogol ha cantato questo amore, quello che tutti noi abbiamo tentato di vivere. Anche in questa era in cui il grande sociologo Zygmunt Bauman ha teorizzato gli amori liquidi. Che poi forse non sono amori, ma infatuazioni, relazioni più o meno importanti. Diverso da quell’amore infinito che questo straordinario uomo, Giulio Rapetti, in arte Mogol ha saputo cantare.
E noi vorremmo che ancora per tanti lui ci illuminasse, ci facesse sognare, sulle note delle sue vecchie nuove canzoni o produzioni. Perché la nostra società così cattiva, cosi individualista, così razzista ha bisogno d’amore. Di quell’amore che soltanto certi poeti come Mogol sanno narrare.