Abbiamo paura. Troppa paura. Il terrorismo fa viaggiare sui media e sui social immagini cruente da troppo tempo. Lo fa con una strategia precisa che non deve essere sottovalutata. Perché oggi il tema è anche quello sollevato da studiosi, esperti, giornalisti dell’emulazione che genera nuovi demoni che uccidono e sparano. Ma la morte spettacolarizzata che va in scena non può trovare spazio sempre e comunque sulle prime pagine, nei titoli dei notiziari. Tutti sembrano concordi su questa linea ma poi ogni giorno la spettacolarizzazione della morte e quindi del terrore è una caratteristica fondamentale delle cronache. E non è un problema legato a nuovi appelli, nuove formule, nuovi giornalismi. No, basta non fare il gioco di quelli che giustamente uno dei più grandi pensatori del nostro secolo chiama Demoni. Quando tempo fa fu pubblicato il video che “documentava” la decapitazione del giornalista americano James Foley su Youtube, si apri un ampio dibattito.
Il video o le immagini della decapitazione fecero il giro del mondo e servì a due scopi, diversi ma entrambi discutibili. Da una parte l’obiettivo dei carnefici di dimostrare la loro potenza e violenza al mondo. Dall’altra il potere di quelli che vengono definiti i colossi del web capaci di alimentare con condivisioni virali la mortificazione delle identità dei singoli utenti. Proprio dopo la decapitazione del giornalista fu Nicolas Henin, compagno di prigionia di James Foley, tra il 2013 ed il 2014, a pronunciare una frase ad effetto:”Non è distruggendo il termometro che si abbassa la febbre”. Ed poi rincarò la dose: “Sono un giornalista. Ho raccontato gli sgozzamenti pubblici di Al Zawahiri e non sono favorevole alla censura”.
Scrissi in quell’occasione, e resto convinto oggi, che il potere delle nuove tecnologie è indiscutibile. Negli ultimi anni le guerre e il terrorismo sono stati narrati spesso dai blogger. Le immagini registrate con smartphone o tablet sono diventate quelle che poi attraverso i social network hanno fatto il giro del mondo e sono state riprese dai giornali e dalle tv.
Il senso dell’attualità sembra essere dato dall’immediatezza con cui le immagini giungono da un capo all’altro del mondo. Il presupposto è che non sempre c’è mediazione giornalistica. Sono passati tre anni ed il dibattito è esattamente lo stesso. Da una parte tanta paura ed insicurezza. Complicato trovare formule per arginarle. Lo stesso Bauman in un’intervista al Corriere della sera trova difficoltà a dare ricette ma fa un’analisi precisa sul perché esistono:” le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza di affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale”.
Quella paura che ha fatto dire ad uno scrittore navigato come Mauro Corona che combattiamo le ombre. O forse come dice Bauman dobbiamo chiamarli “Demoni che ci perseguitano…come la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto non evaporeranno, né scompariranno. Potremmo risvegliarci e recuperare gli anticorpi”.
Già, ed evitare di fare una grandissima marmellata tra migrazione, disperazione, globalizzazione, terrorismo, fondamentalismo religioso, nuove emergenze sociali.
Ho molto apprezzato quanto ha dichiarato poche ore fa nel corso di un’interessante intervista realizzata da Emma D’Acquino, il Direttore di Limes, Lucio Caracciolo. “Chi ha sparato, ucciso o commesso delitti ha la cittadinanza europea. E’ insoddisfatto per quanto è poco integralista il proprio genitore è affranto perché la società dove vive non lo accetta.”
Ma anche la teoria di Beppe Servegnini dell’emulazione che nasce anche per la rappresentazione dei media del terrore e dei terrorismi.
“Tutti –scrive Severgnini sul Corriere- sui giornali, in televisione, sui siti e sui social dobbiamo evitare di spettacolarizzare la morte. Dobbiamo astenerci dal fornire dettagli delle esecuzioni (A Rouen e a Dacca è stato fatto, purtroppo). E dobbiamo imparare a pesare le parole. Parlare di successo di un attentato è sbagliato”.
Quello che ci viene da pensare è che tutti dobbiamo fare la nostra parte. Magari anche un passo indietro per il bene comune. Magari sacrificare qualche immagine, qualche commento, qualche post per non spingere folli, criminali, terroristi a fare peggio di quanto hanno già fatto altri. E’ un tentativo per riprenderci la nostra vita. E se una parte la devono fare i giornalisti e chi gestisce i media, tutti noi possiamo farla sui social.
Il rischio è grandissimo. E’ quello di nuove dittature. Di nuove pagine tristi della storia dell’umanità. Zygmunt Bauman è chiaro su questo: “di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di uomini forti, che promettono in modo irresponsabile, ingannevole, roboante di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. Lasciate fare a me, fidatevi di me, dicono, e io risolverò le cose. In cambio chiedono un’obbedienza incondizionata”.
Tutti noi dobbiamo fare una scelta. Chi governa, chi scrive, chi posta. Sono passati tre anni, ribadisco da quell’immagine di decapitazione che viaggiava spedita su Youtube. Da allora il terrore e la morte spettacolarizzata hanno riempito le nostre vite di paure. Abbiamo persino paura di accendere la tv, di vedere le notifiche sullo smartphone, di andare ad un concerto, di prendere un aereo, di viaggiare sui treni, di fare tragitti con la metro. Nelle nostre menti quelle immagini di vite spezzate, di bambini che non cresceranno mai, di preti che non vogliono inginocchiarsi. Nelle nostre orecchie le cronache che mai avremmo voluto sentire.
Come ammonisce giustamente Severgnini i giornalisti rischiano di diventare “l’ufficio propaganda dei nuovi mostri e di fornire il libretto d’istruzioni ai futuri assassini”.
E questo andrebbe evitato….